Ho
l'impressione che nei luoghi di lavoro si utilizzino le parole un
poco a casaccio. Per esempio la parola responsabilità. Una breve
riflessione a partire da un caso che mi è successo.
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Tavolo di lavoro con un libro che sto leggendo |
La
settimana scorsa mi trovavo in una banca per una consulenza. È
un'azienda con cui collaboro da anni per progetti di formazione, che
hanno spesso ricadute di sviluppo organizzativo. In uno dei momenti
dedicati alla formazione individualizzata uno dei quadri mi dice che
sta facendo un lavoro per autoresponsabilizzare
i direttori di filiale.
È
un lapsus, mi dico, ma poi continuo a pensarci su, perché mi pare
che lasci trasparire dei tratti culturali che sono diventati negli
ultimi anni sempre più forti nelle organizzazioni di lavoro.
Responsabilizzare
qualcuno significa infatti lasciare all'altro la delega per svolgere
un compito definito come rilevante da chi è più in alto in
gerarchia. Questo può essere fatto ascoltando il delegato,
confrontandosi, scontrandosi o semplicemente comunicando la decisione
e l'ambito di responsabilità.
L'atto
di delegare implica, però, anche una responsabilità per il
delegante. La persona designata, infatti, potrebbe rivelarsi meno
abile del previsto, potrebbe avere difficoltà a reggere lo stress,
potrebbe dimostrarsi poco capace di ascolto e guida rispetto ai suoi
collaboratori. Ma potrebbe anche accadere che l'ipotesi che ha
guidato l'atto di delega sia inadeguata, che, nel caso specifico, il
mercato di riferimento sia troppo debole o diffidente per accettare
un approccio più spinto sul piano commerciale, e così via. Delegare
e responsabilizzare sono dunque azioni che implicano una reciprocità,
un patto, un accordo tra parti e anche l'assunzione di responsabilità
precise da parte del delegante.
L'autoresponsabilizzazione
invece è su questioni, compiti, doveri, che l'individuo sente come
propri, a prescindere dal volere delle gerarchie: perché è convinto
della correttezza, necessità o oppurtunità della scelta, oppure
perché individua in quei compiti un suo preciso dovere. Per fare un
esempio, se uno pensa che è giusto guadagnarsi onestamente il
salario, sarà autoresponsabilizzato nel condurre al meglio il suo
lavoro, nell'evitare di stare in malattia a meno che non sia
strettamente necessario, sarà molto critico verso se stesso e
presterà attenzione a tenersi aggiornato e a formarsi. Se invece
avverte come profondamente ingiuste certe decisioni si assumerà la
responsabilità di contrastarle, o anche di combatterle,
assumendosene i rischi connessi. L'atto di autoresponsabilizzarsi
però non può essere declinato al passivo.
Lavorare
per autoresponsabilizzare
invece significa che chi è più in alto in gerarchia non cerca di
responsabilizzare qualcuno circa decisioni prese altrove, assumendosi
la responsabilità della scelta, assegnando all'altro solo la delega
per decidere come eseguire il compito; ma che il capo decide qualcosa
pretendendo che l'altro l'affronti come se fosse una decisione
liberamente presa in perfetta autonomia. Vuol dire, ad esempio, che
il delegato è per definizione d'accordo con la decisione presa, che
questa corrisponde a ciò che egli stesso avrebbe fatto. Si chiede
zelo esecutivo e identificazione con le scelte aziendali, ma si
chiede anche di introiettarle come proprie, dando vita a
un'ingiunzione paradossale del tipo: sii
convinto.
Ora,
quando uno è convinto, non c'è bisogno di nessuna ingiunzione;
quando convinto non è, allora non c'è ingiunzione che tenga. Come
quando a qualcuno in ansia diciamo: stai tranquillo: non funziona, è
impossibile. Serve solo a far sentire in colpa colui che tranquillo
non è, si sente strano, una specie di Gulliver ansioso nel paese dei
tranquilli.
Allora
il rischio è che, per conformismo, il Gulliver direttore di filiale
finisca per mostrare grande tranquillità, introiettando
l'ingiunzione paradossale, ma siccome tranquillo non è, deve fare un
grande sforzo su se stesso e quando non ce la fa si sente in colpa, e
siccome è in colpa allora aumenta lo zelo. Il responsabile di
filiale, probabilmente, finirà per soffrire di stress, a meno che
non trovi delle vie d'uscita come dire sempre di sì e continuare a
fare come sempre.
L'autoresponsabilizzazione
nei confronti delle attività indirizzate al mercato, infatti, può
avvenire se il responsabile di filiale condivide in pieno le scelte
come se fossero le sue stesse scelte. Altrimenti no. Può essere
responsabilizzato a seguirle comunque, ma perché sono state definite
le direttive e gli spazi di delega. Ma, in questo caso, vuol dire che
il nostro quadro non può fare nulla per autoresponsabilizzarlo. Può
fare qualcosa solo per responsabilizzarlo, assumendo, a sua volta, le
responsabilità connesse al suo ruolo.
Un'alternativa
a tutto questo ci sarebbe, e cioè che belle parole come autonomia e
responsabilità divenissero patrimonio autentico delle aziende. Chi
le utilizza, e i vertici aziendali in prima istanza, ne cogliessero
appieno le ambiguità.
Infatti,
autoresponsabilizzarsi, significa anche acquisire autonomia. Il che
implica la possibilità di mettere in discussione, almeno in parte,
le scelte dei nostri interlocutori. Se siamo autonomi, infatti, è
prevedibile che emergano dei punti di vista e delle modalità di
azione almeno in parte differenti.
Le
organizzazioni che facciano questo tipo di scelte, allora, devono
diventare capaci di garantire uno spazio negoziale e partecipativo.
Significa che uno spazio alla possibilità di contribuire alla
definizione delle scelte strategiche, sia pure minimo, ben regolato e
circoscritto, deve sempre essere lasciato.
Non
è obbligatorio farlo, sia chiaro, si può pure scegliere di essere
estremamente direttivi, purché non si sostenga poi, in modo
ideologico e strumentale, che al centro dell'organizzazione sono le
persone e che si privilegia l'autonomia individuale.
Immagina se si provasse a declinare questo principio nel mio luogo di lavoro, l'universita...
RispondiEliminaMatteo Di Gesu'