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Foto di Cristiana Ferrari |
Sabato
29 settembre a Rovereto, in provincia di Trento, si stava svolgendo
un evento dedicato all'educazione. Si chiama Educa
e contiene molte cose, seminari, mostre, presentazioni di libri,
workshop, pure un concerto di musica leggera. Tutto ruota intorno al
mondo dell'educazione e quindi in giro per la città, in cerca di uno
degli eventi che si svolgono in contemporanea, si vedono insegnanti,
genitori, persone interessate alla formazione, appassionati di
letteratura per l'infanzia e di illustrazione.
Io
a Rovereto c'ero capitato un poco per caso, pioveva e mi sono
infilato in un seminario dove un gruppo di ricercatrici, Silvia
Cavalloro, Camilla Monaco e Cristina Zucchermaglio (è un professore
ordinario, si offenderà se enfatizzo il fatto che fa ricerca?),
presentavano una sperimentazione fatta in alcune scuole dell'infanzia
del Trentino. Certe volte si fanno scoperte interessanti a imbucarsi.
Il
metodo di lavoro adottato nelle scuole coinvolte dalla
sperimentazione è stato battezzato Concilio, che a me un poco mi
inquieta, perché mi ricorda il Concilio di Trento, non proprio un
bel momento di apertura democratica.
Invece,
si stava discutendo di come valorizzare le competenze dei bambini dai
3 ai 5 anni, facendoli lavorare in piccoli gruppi per prendere
insieme decisioni su cose di loro interesse. Quelle cose che i grandi
chiamano “progettazione partecipata”, “negoziazione”,
“gestione creativa del conflitto”.
Nel
corso del seminario alle voci delle ricercatrici si alternavano dei
brevi filmati delle attività svolte in classe.
Uno
dei gruppi ripresi, ad esempio, doveva decidere come modificare,
spostare, ristrutturare la casetta, che è una grande casa per finta,
di quelle che ai bambini piacciono tanto, che si trova in ogni
sezione (almeno in Trentino, ho dei dubbi che sia così dappertutto).
Il compito affidato ai bambini era quindi di discutere sullo spazio,
sulle funzioni che la casa deve avere, sulle attività che può
prevedere. Era molto strano, per me che non ci sono abituato, vedere
i bambini, a gruppi di cinque, osservare una mappa, discutere la
validità di una sistemazione rispetto alla luce, proporre di
aggiungere un corridoio, la camera da letto dei genitori, e pure il
bagno naturalmente, proprio come in una casa vera. La casetta è per
gioco, ma il gioco è una cosa seria:
Bambino
- sì, perché se no come facciamo a fare la pipì dentro la
casetta? Dove la facciamo?
Insegnante
– bisognerà farla veramente o per finta? [la maestra qui comincia
a preoccuparsi].
Bambino
- per finta, però non dobbiamo abbassarci i pantaloni, dobbiamo
solo stare in piedi tutti vestiti, se no ci vedono tutti.
Nel
confronto i bambini possono dimostrare capacità riflessiva nel
controbattere, nell'argomentare, nell'affermare frasi come: “ho
avuto un'idea”.
Sono
tutte competenze che normalmente si pensa si sviluppino dopo, o
comunque grazie alla conoscenza di un apparato disciplinare più
vasto. Invece è un fatto naturale e il metodo del Concilio consente
di farlo emergere.
Ogni
sezione, composta da circa 25 bambini, è divisa in gruppi stabili di
5. I bambini stanno attorno al tavolo e discutono in sessioni da 20
minuti, per non stancarsi. Il giorno dopo un altro sottogruppo farà
la stessa cosa. Alla fine di ogni sessione la maestra raccoglie le
proposte e il sottogruppo elegge un rappresentante. I rappresentanti
di ogni sezione prenderanno la decisione conclusiva in una ulteriore
sessione.
E
così si sperimenta anche la delega e il metodo democratico.
L'obiettivo
della sperimentazione è di osservare come si modificano le
competenze dei bambini in una situazione in cui il gruppo lavora
insieme su una questione di comune interesse.
Da
questo punto di vista il risultato sembra straordinario e i filmati
che hanno inframmezzato le relazioni delle ricercatrici risultano
particolarmente esplicativi. I bambini hanno un modo tutto loro di
discutere, mentre uno parla un altro si scaccola o osserva una mosca
volare; poi, mentre sembra evidente che solo in due si stanno
impegnando a fondo, emerge all'improvviso la voce di quello che si
divertiva a dare colpetti sulla mano del compagno e a ridere, che
tira fuori la proposta che mette tutti d'accordo. Alcuni sembrano
proprio assenti, oppure si limitano a fare di sì con la testa. Le
maestre, presenti al seminario e attive al momento delle domande del
pubblico, raccontano però che in altre occasioni questi stessi
bambini, si sono dati da fare in modi inaspettati.
L'obiettivo
del metodo è creare le migliori condizioni possibili all'espressione
delle competenze individuali. L'ipotesi è che il gruppo di pari,
dove l'insegnante si limita a porre qualche domanda e a riassumere,
sia molto più efficace dell'intervento direttivo delle maestre.
Queste
da parte loro hanno dovuto imparare ad assumere una posizione
marginale. Non tirano in ballo quelli che non parlano, non li forzano
a esprimersi. Ogni bambino ha modi diversi di prestare attenzione ed
esprimersi, bisogna dargli fiducia e ascolto.
Durante
la discussione che è continuata in un workshop pomeridiano, le
domande delle insegnanti (sono tutte donne alla materna) non
coinvolte nella sperimentazione erano proprio intorno al loro ruolo.
Emergeva la preoccupazione che i bambini più distratti non stessero
in realtà partecipando, che agli stranieri, che hanno meno facilità
di parola, il metodo potesse metterli in difficoltà. Quello che
sembra invece verificarsi è esattamente il contrario. I bambini,
liberi dal dovere di intervenire, sono legati al piccolo gruppo (che
ha una stabilità nel tempo) e questo consente loro di esprimersi
come meglio credono. Nascono nuove amicizie e acquistano cittadinanza
nuovi modi di fare.
Il
lavoro della maestra si evolve in una direzione inattesa. Per buona
parte del tempo di lavoro diventa il presidio necessario a far sì
che le cose avvengano, ma il suo compito è quello di ascoltare,
accogliere, registrare. La difficoltà che vivono è quella di
ritrarsi, lasciare andare. Le maestre coinvolte nella
sperimentazione, presenti al seminario, dicevano che il loro modo di
fare è cambiato tanto. Avevano delle convinzioni su quali fossero i
bambini più attivi e capaci, che hanno dovuto modificare, grazie
all'esperienza del Concilio, e soprattutto avevano delle convinzioni
sul proprio ruolo e ora si ritrovano a modificare il
loro approccio grazie all'esperienza fatta. Le trascrizioni dei
dialoghi misurano anche i silenzi delle maestre tra una risposta dei
bambini e una nuova domanda. Una delle cose più difficili da
imparare, hanno detto le maestre che hanno partecipato alla sperimentazione, è stato il silenzio, uno spazio a
disposizione dei bambini che lasci emergere voci e pareri nuovi.
Anche
i bambini, a quanto dicono sempre le insegnanti, hanno modificato il
loro atteggiamento. Ora è molto più facile lasciare che lavorino in
autonomia, e avere venticinque bambini per sezione non sembra più
un'impresa, basta lasciarli lavorare nei sottogruppi e seguirne di
volta in volta uno. Infine, hanno cominciato a pensare al gruppo. Non
è più il singolo, nella loro percezione, ad avere o no una certa
competenza. È il gruppo, e le regole con cui lavora a favorire o
meno l'emergere degli “attesi imprevisti”, come li chiamò nel
1996 Paolo Perticari (Bollati Boringhieri).
Io
ho passato una giornata in mezzo a maestre, mamme, ricercatrici (gli
uomini eravamo una ristretta minoranza, sia al mattino che al
pomeriggio) e ho pensato due cose: la prima è prosaica, però di una
certa importanza. È vero che in Trentino hanno più soldi che nel
resto d'Italia, ma una ricerca come questa sul metodo del Concilio,
dubito che altrove l'avrebbero finanziata. Non è che ne sono sicuro,
perché non ho alcuna esperienza di scuole dell'infanzia, diciamo che
ho un fondato pregiudizio e un po' di invidia.
La seconda è meno prosaica e più
problematica, e ha a che fare con le possibilità di cambiamento.
Anche le maestre coinvolte nella sperimentazione pare che
inizialmente non è che fossero proprio convinte. Ma ci hanno provato
con determinazione, hanno accettato di fare un training, di farsi
riprendere con la telecamera, di ammettere gli errori e ricominciare
d'accapo, con l'idea che il buon funzionamento della loro istituzione
non dipende solo dal mondo che c'è là fuori, ma anche dalla
capacità di questa di trovare il modo giusto per farci i conti con
quel mondo. Le maestre hanno imparato che accogliere e valorizzare la
diversità non è una cosa buonista, è diventare consapevoli che
quando un bimbo si scaccola o segue i suoi pensieri non è distratto,
è solo che quello è il suo modo, diverso, di partecipare. E la
bambina impertinente che gioca sempre per i fatti suoi o disturba la
compagna non è una asociale, è una perfetta rappresentante del suo
gruppo, che appena la maestra ha dimenticato di segnare un passaggio
sul suo quaderno, punta il dito e glielo fa notare. Per le maestre
questo può diventare talvolta un passaggio difficile, perché mette
al centro la cooperazione tra pari per far emergere le competenze,
mentre la maestra fa un mezzo passo indietro diventando un
contenitore e il garante delle condizioni che permettono il
confronto.
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