Interrompo il silenzio di quasi due mesi in questo blog. Sono
stato un po’ impegnato nella promozione del libro Tutto è monnezza. In effetti anche in questa intervista proseguo sulla scia del
libro, parlo infatti con due designer che hanno dato vita a una piccola impresa
artigiana, mnmur utilizzando degli scarti molto flessibili, le vecchie camere
d’aria e i copertoni di bici, e molta creatività e intelligenza. Producono
borse, cinture, portafogli e accessori.
Laura e Marco raccontano come hanno iniziato e come ha preso
forma la loro bottega. Quello che mi colpisce è soprattutto la lucidità con cui
presentano un modello di impresa, fatta da due persone e capace di confrontarsi
con una domanda che viene da tutto il mondo.
Li ho incontrati nel piccolo negozio-laboratorio di via
Belfiore 20 a Torino.
50 metri quadri, due stanze. Quella con la vetrina sulla
strada fa da esposizione e sul grande tavolo ci lavorano, disegnano e tagliano.
La stanza dietro è dedicata soprattutto al deposito del materiale grezzo e dei
prodotti finiti.
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Laura e Marco al lavoro nel loro laboratorio |
Mi descrivete il lavoro che fate?
Laura:
Laura:
Il nostro è un lavoro
artigianale. Recuperiamo le camere d’aria vecchie nelle ciclofficine. Abbiamo
iniziato nel 2008, l’idea c’era venuta dopo un viaggio a Berlino. Ora l’uso di
questo tipo di materiale è abbastanza inflazionato, ma allora per noi è stata
una scoperta.
È un materiale affascinante, è semplice da lavorare, facilmente
reperibile, per andare a recuperarlo basta una bici e un bustone, poi basta lavarla e
tagliare.
Non occorrono grandi investimenti per l’attrezzatura, noi abbiamo cominciato con una vecchia macchina da cucire di mia madre. L’unico costo è il tempo che ci dedichi. Noi abbiamo cominciato a casa, su un tavolo, con taglierino, forbici, la macchina da cucire. Come succede a tanti che iniziano con il design autoprodotto, siamo partiti senza capitale. Questo può essere un vantaggio, perché sei spinto a trovare soluzioni con quello che hai. Questo concetto vale anche per i materiali, con le camere d’aria non puoi realizzare qualsiasi cosa ti venga in mente, ad esempio non puoi fare le borse rotonde. Quindi fai oggetti essenziali, che mantengano le caratteristiche del materiale di partenza. Sono i limiti che tracciano la strada. Non puoi snaturare quello che hai. A fare la differenza tra un produttore e un altro è lo stile, la ricerca, la capacità di dialogare con questi limiti.
Marco:
A mano a mano che
sperimenti procedi empiricamente, l’approccio è pratico, vai per prove, errori,
intuizioni. Magari ci accorgiamo che una certa parte di gomma funziona bene per
fare gli angoli. Oppure che possiamo valorizzare il fatto che è impermeabile. Un altro elemento di valore sono le
scritte, i segni sopra le camere d’aria. Ci sembrava che rievocassero il mondo
industriale, che fossero una sorta di anticipazione del futuro. Con le vecchie
camere d’aria recuperi quello che resta, la materia e i segni, le scritte
che per noi non hanno nessun significato (come la scritta CST su un pezzo di
camera d’aria che stiamo osservando). Sono codici utilizzati dall’industria
affinché tra loro si capiscano, che in origine non hanno alcuna funzione
estetica. Normalmente sono nascoste alla vista, non sono marchi. Stravolgere le
funzioni del materiale permette però di valorizzare anche questi elementi in
chiave estetica. Noi partiamo dal fatto che un elemento, la scritta, il colore,
ci piace, e andiamo avanti, senza farci sopra tanti ragionamenti.
Laura:
All’inizio facevamo un
banchetto al Balôn (un mercato di oggetti usati che si svolge ogni sabato nella
zona di Porta Palazzo a Torino). Ci siamo accorti subito che erano oggetti che
piacevano. A Torino non si erano ancora viste cose del genere. Le persone
reagivano con stupore, ci incoraggiavano. Tranne i più anziani, che avevano
sempre commenti critici da fare. All’inizio dunque tutto è rimasto a livello di
hobby. Io continuavo con il mio lavoro a part-time. Era un lavoro
amministrativo, in un’azienda che occupava una settantina di persone. Prendevo
le presenze, caricavo le ore, cose simili. Mi annoiavo. Nel giro di un paio
d’ore avevo finito tutto e starmene con le mani in mano non mi piaceva. Però
per qualche anno ho continuato a farlo, del resto lavorare in ufficio era
comunque più redditizio che fare la cameriera, e mi ha permesso di mantenermi
agli studi (Laura è laureata in Storia dell’Arte) e vivere da sola.
Marco:
Finita la scuola ho fatto
il grafico e realizzato siti web. Ho cambiato diverse agenzie, sempre con
contratti a tempo determinato. Nell’ultima il lavoro era stimolante, mi
occupavo di interaction design, quella branca del design che si occupa di
migliorare l’interazione tra le persone e gli oggetti. Questo mi ha permesso di
abbondonare la grafica, ho contribuito a progettare un workshop per Torino design capital in cui dovevamo realizzare un oggetto utilizzando il pluriball, la plastica
ripiena d’aria che si usa nelle buste imbottite e negli imballaggi. Nel
frattempo cominciavamo a sperimentare con le camere d’aria. Da lì abbiamo
cominciato ad avvicinarci alla manualità. La prima volta siamo stati a un
mercatino a Parma. Era una di quelle situazioni tristi con poche persone, poco
movimento, pochi affari. Era andata male a tutti tranne che a noi, che abbiamo
venduto tutto. In quel momento abbiamo avuto la sensazione di avere una bomba
tra le mani, c’era entusiasmo. Mio padre ci ha comprato la macchina da cucire
che abbiamo ancora qua in negozio. Poi, dal Balôn è cominciato il passaparola.
All’inizio non avevamo un marchio, poi abbiamo pensato
di farlo, ma che non contenesse le parole eco,
green, troviamo che siano concetti ipersfruttati che finiscono per
significare poco. La scelta allora è caduta sul lettering; mnmur per noi
rinvia a: cosa nuova non definita con una parola chiara. La parola infatti
evoca la trasformazione (di un prodotto che non nasce per realizzare borse) ed
è minimal, fa insieme nome e logo.
Laura:
Non abbiamo una chiara
divisione dei ruoli, io e Marco facciamo le stesse cose. Siamo qui nella stessa
stanza, è normale ogni tanto confrontarsi, chiedere consiglio all’altro,
condividere i compiti. La collezione è sempre la stessa dall’inizio. Sono gli
stessi modelli evoluti. Il primo
portafoglio rispondeva alle mie necessità personali. L’altro criterio che
cerchiamo di rispettare è che devono servire pochi passaggi; ad esempio, per
realizzare la borsa più grande all’inizio ci voleva un giorno. Era realizzata
con 15 pezzi, ora ce ne bastano 10. Abbiamo capito anche che se usi geometrie
più semplici, misure che siano gli uni multipli degli altri, allora velocizzi
molto il lavoro. Ora in un giorno di borse grandi ne possiamo realizzare tre.
Marco:
Insieme valutiamo le
scelte. Lei vede certi dettagli che io non vedo. Io cerco di approfondire di
più certi aspetti tecnici. Per i colori invece Laura è più attenta.
Noi conserviamo sempre gli
oggetti realizzati negli anni scorsi. Riguardandoli capisci come è cambiato il
nostro sguardo sulle cose. Ora le cose sono più leggere, colorate. La parte
interna spesso è in pvc da teli di camion. A un certo punto abbiamo introdotto
anche dei ricami fatti con il filo che rappresentano una sorta di flusso di
coscienza applicato all’oggetto. Poi abbiamo cambiato di nuovo strada e abbiamo
abbandonato i ricami.
Qual è la cosa più importante nel vostro lavoro, che non dovete
assolutamente trascurare?
Marco:
Dal punto di vista pratico
quando siamo partiti non eravamo in regola, non avevamo oneri, siamo partiti
facendo quello che ci piace, e questo è alla base, perché ti permette di
esprimerti, di trovare un tuo ritmo, è un modo per andare avanti come persona,
perché negli oggetti riporti quello che sei; se domani dovessi venire qui solo
per produrre non credo che funzionerebbe. Verrebbe male, oppure mi stancherebbe
troppo.
Nella realtà, a mano a mano
che vai avanti devi capire che non è un gioco, impari a fare i conti, ma cerchi
anche di capire cosa ti assomiglia. In fiera a Milano, ad esempio, abbiamo
incontrato alcuni designer che sono partiti come noi e ora sono in dieci. Si
sono affidati a degli agenti, si occupano della distribuzione, sovraccaricano
il mercato di merce. Va a finire che lavorano di più, si stressano di più, per
guadagnare gli stessi soldi di prima. Al Macef quest’anno abbiamo visto
banchetti carichi delle cose più inutili, cumuli di biglietti di Natale. Io me lo chiedo sempre a quali bisogni
corrispondono gli oggetti che produciamo. Allora non dico che non
prenderemo mai delle persone, magari sì. Qualcuno che abbia voglia di diventare
parte dell’impresa. Però non voglio che diventiamo parte di un meccanismo in
cui produci di più, allora devi vendere di più, e smetti di chiederti a cosa
servono le cose che fai.
A me sembra un modello di
impresa vecchio.
Come è cambiato il vostro lavoro negli ultimi 3 anni?
Marco:
Sono cambiate diverse cose,
siamo cresciuti, lo spazio è più grande, ora abbiamo una lavatrice, mentre
prima andavamo nelle lavanderie a gettoni. In quel periodo le cose erano
vissute un po’ alla giornata. Ora cerchiamo di programmarci, di creare una
strategia. Ad esempio, se c’è un evento o fiera, decidiamo se partecipare.
Abbiamo realizzato un prodotto nuovo e pensiamo a come pubblicizzarlo. C’è un
minimo di pianificazione insomma.
Adesso per esempio siamo
più propensi a lavorare con il web, spendiamo di più per il restyling del sito,
per le foto, per essere riconosciuti. In mercati come Etsy, dove
chiunque può esporre i propri prodotti, abbiamo tantissimi ordini, soprattutto
dagli Stati Uniti, ma di portali come Etsy ne sono nati diversi, e noi
cerchiamo sempre di essere collegati a queste realtà, cerchiamo di essere
pubblicati, di farci vedere là più che nei negozi. I negozianti fanno ordini
micro e i pagamenti sono a 30 giorni. Ci fa piacere farlo, ma il futuro è più
su Internet. È un modo diverso di fare
mercato: infatti sui siti devi essere bravo a comunicare, più che a fare il
prezzo, devi conoscere linguaggio clienti, i loro bisogni, devi sapere
scegliere i prodotti da promuovere. I siti di vendita on line hanno
sviluppato una nuova idea di mercato. Ad esempio non hanno magazzini, il che
richiede meno investimenti. Per questo motivo a noi produttori chiedono una
percentuale più bassa rispetto ai negozi (siamo sul 20% circa). E questo è
motivante per chi produce. Un altro vantaggio è che anche noi non dobbiamo per
forza produrre tanta merce da mettere in magazzino, quando ci sono gli ordini
produciamo, altrimenti niente. E questo ci consente di non avere necessità di
grossi investimenti.
Il lavoro che ti viene
richiesto è più creativo, le foto, il lavoro di comunicazione che aiuta il
cliente a capire cosa sta acquistando. E poi anche per i clienti è comodo, e se
una cosa, una volta che l’hanno ricevuta a casa, non gli piace, possono sempre
rispedirla indietro. È un rapporto con il mercato diverso da tanti punti di
vista.
È cambiato qualcosa nel vostro atteggiamento verso il lavoro a
seguito di questi cambiamenti? Perché?
Marco:
Siamo più veloci, abbiamo
migliorato la qualità dei prodotti, lavorando giorno dopo giorno con lo stesso
materiale. All’apparenza sono oggetti semplici, ma ci sono tanti dettagli su
cui ci siamo affinati. Ora la sfida sarà fare cose nuove. Stiamo pensando di
utilizzare i copertoni di bici e non solo le camere d’aria per fare oggetti più
grandi.
Cosa non sopportate del vostro lavoro?
Laura:
Oltre ai ritardati
pagamenti da parte dei rivenditori, c’è che siamo in due a gestire tante cose.
E così finisce che sei sempre dentro il lavoro. Questo sul lungo periodo può
diventare faticoso. Decidere in due è difficile e in certi momenti siamo
stanchi. Tra un po’ ci sarà una fiera a Bologna e abbiamo finito per tirare a
sorte. Andrò io. E poi noi siamo anche una coppia, però non viviamo insieme,
abbiamo deciso di tenerci almeno uno spazio dove fare le cose da soli.
Qual è la cosa più importante che ritenete di avere imparato
nel vostro mestiere?
Marco:
Se fai le cose per bene,
sei onesto e disponibile, non stai sbagliando e il risultato arriva.
Laura:
Mai fregare nessuno, non
impuntarsi, continuare a migliorare i prodotti.
Che lavoro sognavate di fare da bambini?
Laura:
La grafica pubblicitaria.
Marco:
Il pompiere.
E che nesso c'è con il lavoro che fate ora?
Laura:
La creatività.
Marco:
Nessuno, credo.
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