Una
donna di 35 anni racconta così un periodo in cui lavora poco da casa
dopo aver perso un lavoro a tempo determinato che andava avanti da
due anni.
Officine Grandi Riparazioni |
Dopo
mesi di vuoto, di invio di curricula senza risposte o con risposte di
circostanza, non sa cosa fare e come spiegarsi questo momento. Ce
l'ha con l'Italia, con la crisi, con il mondo del lavoro. Dice che a
35 anni si aspettava di avere un lavoro e qualche certezza in più. A
Torino ci sto bene, non mi piace che mi costringano ad andare via.
In
fondo ritiene di avere studiato abbastanza, di essersi costruita una
buona professionalità. È una persona seria, affidabile, ben
preparata, ma non ha un lavoro.
Il
suo discorso interseca diversi piani, il legittimo desiderio di
riuscita professionale, quello altrettanto legittimo di non dovere
emigrare, quello di sentirsi riconosciuta e protetta da un posto di
lavoro. L'intreccio è inestricabile fino a che non cominciamo a
distinguere. Ha studiato e lavorato per diventare brava in un
mestiere intellettuale, ed è quello che vuole in prima istanza.
Bene, allora anche all'estero? Mi fa rabbia, dice. Ma cosa se ne fa
della rabbia? La rabbia verso le condizioni in cui versa un paese
possono diventare azione collettiva, pubblica, politica, altrimenti
rischia di diventare solo un sentimento che blocca il pensiero e
l'azione.
L'epoca
della flessibilità e precarietà ci mettono di fronte a nuovi limiti
della pensabilità di un progetto, ci costringono a distinguere, a
scegliere, ad assumerci il peso delle scelte. Eppure tale
responsabilità individuale non nega le responsabilità collettive e
politiche, tutt'altro, non implica che sia tutta colpa o
responsabilità dell'individuo. Non lo è. E nello stesso tempo
nessuno può sottrarsi ad assumersi la sua parte di responsabilità,
perché desiderare di fare un lavoro, ad esempio, e studiare per
farcela, è una scelta, e in quanto tale richiede impegno e capacità
di adattamento anche a situazioni contingenti molto difficili. Un
adattamento che non è sinonimo di appiattimento, rinuncia, che tenga
sempre aperto lo spazio della speranza, del progetto, e sia capace di
stare in una situazione in cui è difficile riconoscersi. Una fatica
immane. Non c'è più nessun garante, lo Stato, il Welfare, a
prendersi cura delle nostre aspettative, il fardello delle nostre
possibilità è tutto addosso agli individui, e la ricerca di una via
dove possa avere cittadinanza la dimensione del nonostante,
che fa sì che nonostante il brutto che c'è io perseguo le mie
priorità, è una conquista, che richiede riflessione, capacità di
distinguere cosa ci guida nell'azione, quali priorità perseguiamo,
sapendo che potremmo scoprire che la priorità è il lavoro sicuro,
anche a costo di abbandonare l'area di competenze per la quale
abbiamo studiato e sognato. Oppure no, che vogliamo fortissimamente
proseguire, sapendo di non essere ricchi di famiglia, né
particolarmente fortunati a essere nel posto giusto al momento
giusto. O ancora, che abbiamo voglia di impegnarci con gli altri,
perché così com'è in Italia non funziona, e soprattutto, è una
continua oscillazione, tra possibilità teoricamente infinite e
frustrazioni profonde, e affrontare oscillazioni così forti da soli
e senza riuscire a capire non si può e non si dovrebbe, oppure,
oppure, e oppure, quante saranno le strade che è possibile
percorrere, e i limiti alle cose che si possono immaginare.
Nessun commento:
Posta un commento
è uno spazio per dialogare, commentare, chiedere approfondimenti e chiarimenti