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venerdì 22 giugno 2012

Scelte



Una donna di 35 anni racconta così un periodo in cui lavora poco da casa dopo aver perso un lavoro a tempo determinato che andava avanti da due anni.
Officine Grandi Riparazioni
Dopo mesi di vuoto, di invio di curricula senza risposte o con risposte di circostanza, non sa cosa fare e come spiegarsi questo momento. Ce l'ha con l'Italia, con la crisi, con il mondo del lavoro. Dice che a 35 anni si aspettava di avere un lavoro e qualche certezza in più. A Torino ci sto bene, non mi piace che mi costringano ad andare via.
In fondo ritiene di avere studiato abbastanza, di essersi costruita una buona professionalità. È una persona seria, affidabile, ben preparata, ma non ha un lavoro.
Nel raccontare la sua esperienza rivela i conflitti tra le cose che vuole, si aspetta, desidera: trovare un buon lavoro attinente alla sua professionalità e trovare un lavoro a Torino. Le sue aspettative la schiacciano, sono maturate in un tempo in cui le persone intorno a lei volevano il posto fisso e potevano aspirare a una certa sicurezza. Non le piace questo momento, ma non si ribella, continua ad aspettarsi che qualcosa succeda. Non vuole andare all'estero, però non modifica in nulla le sue aspettative.
Il suo discorso interseca diversi piani, il legittimo desiderio di riuscita professionale, quello altrettanto legittimo di non dovere emigrare, quello di sentirsi riconosciuta e protetta da un posto di lavoro. L'intreccio è inestricabile fino a che non cominciamo a distinguere. Ha studiato e lavorato per diventare brava in un mestiere intellettuale, ed è quello che vuole in prima istanza. Bene, allora anche all'estero? Mi fa rabbia, dice. Ma cosa se ne fa della rabbia? La rabbia verso le condizioni in cui versa un paese possono diventare azione collettiva, pubblica, politica, altrimenti rischia di diventare solo un sentimento che blocca il pensiero e l'azione.
L'epoca della flessibilità e precarietà ci mettono di fronte a nuovi limiti della pensabilità di un progetto, ci costringono a distinguere, a scegliere, ad assumerci il peso delle scelte. Eppure tale responsabilità individuale non nega le responsabilità collettive e politiche, tutt'altro, non implica che sia tutta colpa o responsabilità dell'individuo. Non lo è. E nello stesso tempo nessuno può sottrarsi ad assumersi la sua parte di responsabilità, perché desiderare di fare un lavoro, ad esempio, e studiare per farcela, è una scelta, e in quanto tale richiede impegno e capacità di adattamento anche a situazioni contingenti molto difficili. Un adattamento che non è sinonimo di appiattimento, rinuncia, che tenga sempre aperto lo spazio della speranza, del progetto, e sia capace di stare in una situazione in cui è difficile riconoscersi. Una fatica immane. Non c'è più nessun garante, lo Stato, il Welfare, a prendersi cura delle nostre aspettative, il fardello delle nostre possibilità è tutto addosso agli individui, e la ricerca di una via dove possa avere cittadinanza la dimensione del nonostante, che fa sì che nonostante il brutto che c'è io perseguo le mie priorità, è una conquista, che richiede riflessione, capacità di distinguere cosa ci guida nell'azione, quali priorità perseguiamo, sapendo che potremmo scoprire che la priorità è il lavoro sicuro, anche a costo di abbandonare l'area di competenze per la quale abbiamo studiato e sognato. Oppure no, che vogliamo fortissimamente proseguire, sapendo di non essere ricchi di famiglia, né particolarmente fortunati a essere nel posto giusto al momento giusto. O ancora, che abbiamo voglia di impegnarci con gli altri, perché così com'è in Italia non funziona, e soprattutto, è una continua oscillazione, tra possibilità teoricamente infinite e frustrazioni profonde, e affrontare oscillazioni così forti da soli e senza riuscire a capire non si può e non si dovrebbe, oppure, oppure, e oppure, quante saranno le strade che è possibile percorrere, e i limiti alle cose che si possono immaginare.

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