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mercoledì 10 ottobre 2012

I bambini ne sanno di cose!

Foto di Cristiana Ferrari
Sabato 29 settembre a Rovereto, in provincia di Trento, si stava svolgendo un evento dedicato all'educazione. Si chiama Educa e contiene molte cose, seminari, mostre, presentazioni di libri, workshop, pure un concerto di musica leggera. Tutto ruota intorno al mondo dell'educazione e quindi in giro per la città, in cerca di uno degli eventi che si svolgono in contemporanea, si vedono insegnanti, genitori, persone interessate alla formazione, appassionati di letteratura per l'infanzia e di illustrazione.
Io a Rovereto c'ero capitato un poco per caso, pioveva e mi sono infilato in un seminario dove un gruppo di ricercatrici, Silvia Cavalloro, Camilla Monaco e Cristina Zucchermaglio (è un professore ordinario, si offenderà se enfatizzo il fatto che fa ricerca?), presentavano una sperimentazione fatta in alcune scuole dell'infanzia del Trentino. Certe volte si fanno scoperte interessanti a imbucarsi.

Il metodo di lavoro adottato nelle scuole coinvolte dalla sperimentazione è stato battezzato Concilio, che a me un poco mi inquieta, perché mi ricorda il Concilio di Trento, non proprio un bel momento di apertura democratica.
Invece, si stava discutendo di come valorizzare le competenze dei bambini dai 3 ai 5 anni, facendoli lavorare in piccoli gruppi per prendere insieme decisioni su cose di loro interesse. Quelle cose che i grandi chiamano “progettazione partecipata”, “negoziazione”, “gestione creativa del conflitto”.
Nel corso del seminario alle voci delle ricercatrici si alternavano dei brevi filmati delle attività svolte in classe.
Uno dei gruppi ripresi, ad esempio, doveva decidere come modificare, spostare, ristrutturare la casetta, che è una grande casa per finta, di quelle che ai bambini piacciono tanto, che si trova in ogni sezione (almeno in Trentino, ho dei dubbi che sia così dappertutto). Il compito affidato ai bambini era quindi di discutere sullo spazio, sulle funzioni che la casa deve avere, sulle attività che può prevedere. Era molto strano, per me che non ci sono abituato, vedere i bambini, a gruppi di cinque, osservare una mappa, discutere la validità di una sistemazione rispetto alla luce, proporre di aggiungere un corridoio, la camera da letto dei genitori, e pure il bagno naturalmente, proprio come in una casa vera. La casetta è per gioco, ma il gioco è una cosa seria:

Bambino - sì, perché se no come facciamo a fare la pipì dentro la casetta? Dove la facciamo?
Insegnante – bisognerà farla veramente o per finta? [la maestra qui comincia a preoccuparsi].
Bambino - per finta, però non dobbiamo abbassarci i pantaloni, dobbiamo solo stare in piedi tutti vestiti, se no ci vedono tutti.

Nel confronto i bambini possono dimostrare capacità riflessiva nel controbattere, nell'argomentare, nell'affermare frasi come: “ho avuto un'idea”.
Sono tutte competenze che normalmente si pensa si sviluppino dopo, o comunque grazie alla conoscenza di un apparato disciplinare più vasto. Invece è un fatto naturale e il metodo del Concilio consente di farlo emergere.

Ogni sezione, composta da circa 25 bambini, è divisa in gruppi stabili di 5. I bambini stanno attorno al tavolo e discutono in sessioni da 20 minuti, per non stancarsi. Il giorno dopo un altro sottogruppo farà la stessa cosa. Alla fine di ogni sessione la maestra raccoglie le proposte e il sottogruppo elegge un rappresentante. I rappresentanti di ogni sezione prenderanno la decisione conclusiva in una ulteriore sessione.
E così si sperimenta anche la delega e il metodo democratico.

L'obiettivo della sperimentazione è di osservare come si modificano le competenze dei bambini in una situazione in cui il gruppo lavora insieme su una questione di comune interesse.
Da questo punto di vista il risultato sembra straordinario e i filmati che hanno inframmezzato le relazioni delle ricercatrici risultano particolarmente esplicativi. I bambini hanno un modo tutto loro di discutere, mentre uno parla un altro si scaccola o osserva una mosca volare; poi, mentre sembra evidente che solo in due si stanno impegnando a fondo, emerge all'improvviso la voce di quello che si divertiva a dare colpetti sulla mano del compagno e a ridere, che tira fuori la proposta che mette tutti d'accordo. Alcuni sembrano proprio assenti, oppure si limitano a fare di sì con la testa. Le maestre, presenti al seminario e attive al momento delle domande del pubblico, raccontano però che in altre occasioni questi stessi bambini, si sono dati da fare in modi inaspettati.
L'obiettivo del metodo è creare le migliori condizioni possibili all'espressione delle competenze individuali. L'ipotesi è che il gruppo di pari, dove l'insegnante si limita a porre qualche domanda e a riassumere, sia molto più efficace dell'intervento direttivo delle maestre.
Queste da parte loro hanno dovuto imparare ad assumere una posizione marginale. Non tirano in ballo quelli che non parlano, non li forzano a esprimersi. Ogni bambino ha modi diversi di prestare attenzione ed esprimersi, bisogna dargli fiducia e ascolto.
Durante la discussione che è continuata in un workshop pomeridiano, le domande delle insegnanti (sono tutte donne alla materna) non coinvolte nella sperimentazione erano proprio intorno al loro ruolo. Emergeva la preoccupazione che i bambini più distratti non stessero in realtà partecipando, che agli stranieri, che hanno meno facilità di parola, il metodo potesse metterli in difficoltà. Quello che sembra invece verificarsi è esattamente il contrario. I bambini, liberi dal dovere di intervenire, sono legati al piccolo gruppo (che ha una stabilità nel tempo) e questo consente loro di esprimersi come meglio credono. Nascono nuove amicizie e acquistano cittadinanza nuovi modi di fare.
Il lavoro della maestra si evolve in una direzione inattesa. Per buona parte del tempo di lavoro diventa il presidio necessario a far sì che le cose avvengano, ma il suo compito è quello di ascoltare, accogliere, registrare. La difficoltà che vivono è quella di ritrarsi, lasciare andare. Le maestre coinvolte nella sperimentazione, presenti al seminario, dicevano che il loro modo di fare è cambiato tanto. Avevano delle convinzioni su quali fossero i bambini più attivi e capaci, che hanno dovuto modificare, grazie all'esperienza del Concilio, e soprattutto avevano delle convinzioni sul proprio ruolo e ora si ritrovano a modificare il loro approccio grazie all'esperienza fatta. Le trascrizioni dei dialoghi misurano anche i silenzi delle maestre tra una risposta dei bambini e una nuova domanda. Una delle cose più difficili da imparare, hanno detto le maestre che hanno partecipato alla sperimentazione, è stato il silenzio, uno spazio a disposizione dei bambini che lasci emergere voci e pareri nuovi.
Anche i bambini, a quanto dicono sempre le insegnanti, hanno modificato il loro atteggiamento. Ora è molto più facile lasciare che lavorino in autonomia, e avere venticinque bambini per sezione non sembra più un'impresa, basta lasciarli lavorare nei sottogruppi e seguirne di volta in volta uno. Infine, hanno cominciato a pensare al gruppo. Non è più il singolo, nella loro percezione, ad avere o no una certa competenza. È il gruppo, e le regole con cui lavora a favorire o meno l'emergere degli “attesi imprevisti”, come li chiamò nel 1996 Paolo Perticari (Bollati Boringhieri).

Io ho passato una giornata in mezzo a maestre, mamme, ricercatrici (gli uomini eravamo una ristretta minoranza, sia al mattino che al pomeriggio) e ho pensato due cose: la prima è prosaica, però di una certa importanza. È vero che in Trentino hanno più soldi che nel resto d'Italia, ma una ricerca come questa sul metodo del Concilio, dubito che altrove l'avrebbero finanziata. Non è che ne sono sicuro, perché non ho alcuna esperienza di scuole dell'infanzia, diciamo che ho un fondato pregiudizio e un po' di invidia. 
La seconda è meno prosaica e più problematica, e ha a che fare con le possibilità di cambiamento. Anche le maestre coinvolte nella sperimentazione pare che inizialmente non è che fossero proprio convinte. Ma ci hanno provato con determinazione, hanno accettato di fare un training, di farsi riprendere con la telecamera, di ammettere gli errori e ricominciare d'accapo, con l'idea che il buon funzionamento della loro istituzione non dipende solo dal mondo che c'è là fuori, ma anche dalla capacità di questa di trovare il modo giusto per farci i conti con quel mondo. Le maestre hanno imparato che accogliere e valorizzare la diversità non è una cosa buonista, è diventare consapevoli che quando un bimbo si scaccola o segue i suoi pensieri non è distratto, è solo che quello è il suo modo, diverso, di partecipare. E la bambina impertinente che gioca sempre per i fatti suoi o disturba la compagna non è una asociale, è una perfetta rappresentante del suo gruppo, che appena la maestra ha dimenticato di segnare un passaggio sul suo quaderno, punta il dito e glielo fa notare. Per le maestre questo può diventare talvolta un passaggio difficile, perché mette al centro la cooperazione tra pari per far emergere le competenze, mentre la maestra fa un mezzo passo indietro diventando un contenitore e il garante delle condizioni che permettono il confronto.

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