Roberto De Gregorio è un grafico
pubblicitario che da alcuni anni ha cominciato a dedicarsi alla progettazione
di oggetti. All’inizio erano gadget, destinati agli eventi con cui collaborava;
poi ha cominciato a interessarsi agli scarti di produzione, interesse che condividiamo. Da questo interesse
è nata la collaborazione con alcuni artigiani torinesi. Insieme hanno prodotto
mobili da pezzi di vecchie Fiat 500, poi sedie e poltrone da vecchi bidoni
d’olio e da un paio d’anni si dedica a produrre borse utilizzando gli scarti
dei tessuti delle auto e vecchie cinture di sicurezza, fondi di magazzino
oramai obsoleti. La conversazione che leggete risale a domenica 21 settembre
2013. Siamo andati insieme alla vecchia fabbrica Leumann a Rivoli, oramai dismessa.
In uno dei capannoni Roberto ha realizzato l’installazione di alcune fotografie
realizzate da Massimiliano Camellini. Le immagini ritraggono la fabbrica subito
dopo la dismissione e riprendono oggetti d’uso, cartelli, avvisi, tracce di
vita quotidiana che sembra essersi dileguata all’improvviso per via di qualche
catastrofe. La mostra, adesso è chiusa, ma le foto si ritrovano su un libro, Ore 18, l’orario è finito editore Hapax. Alcune di queste foto si trovano pure sul sito del Festival fotografico Europeo che durerà fino al 13 novembre2013
La vecchia fabbrica
è una specie di spettro, 10 mila metri quadrati, su 3 piani. Ha funzionato come
fabbrica tessile, con alterne vicende, fino al 2007. Nel 2010 è stata
smantellata e ora i macchinari non ci sono più. Accanto c’è il villaggio
Leumann, che ospitava operai e impiegati. La casa dei Leumann si trova nel
piazzale antistante lo stabilimento produttivo. I padroni vivevano lo stesso
contesto degli operai, sentivano gli stessi odori e soffrivano degli stessi
rumori.
L’idea di lavoro che emerge da uno spazio come questo è spiazzante in
un’epoca dove responsabilità sociale d’impresa è spesso un concetto labile e
poco coerente con la vita quotidiana dell’organizzazione.
La conversazione
tra noi scivola in fretta sulla nostra idea di lavoro. Roberto ha le idee
chiare sul suo ruolo di designer. Alcune delle cose che mi ha detto le riporto
qui di seguito, perché secondo me aprono uno spazio di riflessione interessante
per tanti, anche non designer, per il metodo con cui affronta le questioni che
gli stanno a cuore. E poi, altro aspetto per me affascinante, perché Roberto
parla di riuso creativo in modo da uscire dagli stereotipi legati alla
necessità e opportunità di ridurre i rifiuti, ma come possibilità concreta e
quasi come necessità nel paesaggio urbano nel quale viviamo.
“Design è per me
estetica della necessità. Noi ora parliamo di design come fosse una specialità
del ‘900, mentre invece è il mestiere più antico del mondo. Ogni oggetto è
infatti figlio di una necessità, un martello, un chiodo, una lama; di una
necessità e di una possibilità, data dalle risorse disponibili intorno, che
sono necessariamente limitate. Oggi per me il design ha come limite il
paesaggio urbano che abbiamo generato, le risorse che vi sono presenti, e i
rifiuti, gli scarti, sono tra questi.
Ogni oggetto nato
dalla necessità ci racconta la storia di chi l’ha creato, ci racconta di un
ambiente, di un sistema di relazioni. Ho visto ad esempio a Rotterdam che una cooperativa si è fatta
assegnare dal Comune dei pezzi di terra incolta in mezzo agli hangar del porto.
Lì coltivano frutta e verdura. Hanno anche aperto un ristorante, dove
utilizzano le cose che coltivano. Come sedie utilizzano dei tronchi tagliati
che erano stati dimenticati al porto. Vederli in quel luogo mi ha dato il senso
di cosa intendo io per design, sono oggetti fatti con le risorse presenti
localmente, sono collegati al lavoro che fanno le persone e sono le persone a
metterci il valore aggiunto.
Non mi sono accorto
subito delle possibilità di lavorare con gli scarti. Io sono designer da 3 o 4
anni, prima non ero così sensibile, ora trovo cose che spuntano da ogni dove,
oggetti, pezzi di stoffa o di legno. L’idea di incorniciare le foto con questi
telai, ad esempio, mi è venuta qua dentro. Ce n’erano un mucchio buttati in un
magazzino. Servivano per stampare le stoffe. Mi affascinava la possibilità di
squarciarli perché sotto emergesse la loro storia, grazie a queste foto. Sono
molto tesi e, appena ho fatto il primo taglio, il materiale si è arrotolato
prendendo le forme che vedi. La materia che abbiamo intorno può ancora
raccontare tante storie, se la guardiamo con attenzione.
La storia delle
borse Rebelt è cominciata un paio di anni fa. Vedevo che il sellaio con cui collaboro, Massimo Torassa buttava via le cinture di sicurezza,
i pezzi di tessuto che gli rimanevano, le capotte e ho pensato che potevano
essere utili per fare delle borse dai frammenti che fossero pezzi unici. Poi
sono stato a una mostra di Mondrian e mi sono messo in testa di realizzare una
borsa Mondrian. Tornato a Torino, però, vedevo che accostando i pezzi non
trovavo la giusta composizione e anche quando accadeva, magari non mi piaceva.
Allora ho cominciato ad accostare i pezzi liberamente, senza pensare troppo, ed
ho scoperto che accostando pezzi apparentemente inconciliabili magari veniva
fuori un buon equilibrio. Nelle borse in effetti sono i pezzi di cintura di
sicurezza che fanno da collante e creano una sorta di tessitura. Questa è stata
una scoperta.
Quando lavoro mi
piace affrontare le difficoltà, in questo caso, era di trovarmi con pezzi di
stoffa di colore, forma, tessuto diverso, da quello più doppio e pesante a
quello più leggero.
Alla fine le borse
producono una sorta di effetto Missoni, danno l’idea della composizione.
Mi ha aiutato anche
un testo, si intitola Postproduction,
che sostiene che l’arte moderna non
riesce più a inventare nulla, perché non è necessario. Gli artisti
contemporanei sono come dei registi che fanno migliaia di ore di girato e poi
montano insieme i pezzi, come Andy Wharol con gli oggetti di uso quotidiano. È una
sorta di rivalsa della cultura sul consumo, quando un oggetto banale come la
scatola di zuppa Campbell diventa arte. Con i tessuti delle auto per me è la
stessa cosa, metti insieme cose che non dovevano stare insieme e produci un
oggetto.
Per me al centro
del design non è l’oggetto, ma ciò che gli ruota intorno. L’oggetto produce una
sorta di gravitazione attorno a cui tutto il resto ruota. È cambiamento, per te
e per quelli che ti circondano.
Una delle cose che
abbiamo deciso con il mio amico sellaio è che le borse le avremmo prodotte a
Torino, pagando una persona che taglia e cuce, messa in regola con tutti i
contributi pagati. Altrimenti staremmo negando quello che dicevo prima. Se il
design è
frutto della necessità, allora deve rispettare i vincoli dati dalla
presenza di materia prima, dalle capacità e competenze presenti in un luogo.
Non ha senso per me che un grande designer faccia produrre un oggetto in Cina,
perché il processo creativo e costruttivo ha bisogno di concentrare le
intelligenze.
Il designer poi
deve essere capace di comprendere come l’oggetto che crea può trovare una sua
continuità produttiva, industrializzando il progetto, o comunque rendendolo
riproducibile. Quando hai del materiale limitato rischi che l’esperienza
finisca. Il materiale di recupero ha dentro un limite, e questo aiuta a
moltiplicare la creatività. Più hai vincoli più la creatività si moltiplica,
perché devi fare delle scelte.
La difficoltà principale
che ho incontrato quando ho cominciato è stata trovare qualcuno che avesse
esperienza dei materiali. Lì comincia il dialogo. Il timore è di trovare del
materiale di cui non conosci le problematiche. Una delle cose che si perde con
la scomparsa dei piccoli artigiani è la conoscenza dei materiali. Ad esempio a
Torino sono rimasti pochissimi sellai.
Ora il punto non è
salvare i sellai, oppure i riparatori di elettrodomestici dalla scomparsa,
perché sarebbe come dire che devi salvare il panda, un animale che non sai a
che sorta di equilibrio contribuisce nella natura, ma ti pare simpatico. Il
punto è che gli artigiani sono gli unici che conoscono la materia da un punto
di vista pratico, sanno come si usa, come si manipola, cosa ci puoi fare e cosa
no. Se non riesco a entrare in relazione con il materiale, perché non lo conosco,
non posso produrre niente. Per questo dico che il design è mettere insieme
esperienze, non assemblare.
Quindi, torniamo al
discorso dei sellai, il punto è che spariti questi pochi che ancora lavorano, sparisce anche tutta la
conoscenza che loro hanno del materiale, che sono i tessuti dei sedili delle
auto, un materiale che ormai sa di archeologia del ‘900. Persa la conoscenza
dei materiali vuol dire che anche i materiali perdono valore, perché nessuno sa
più cosa farne e come utilizzarli. Per questo per me, per fare il designer, le
condizioni sono due: la disponibilità locale di materia prima e di competenze”.
Ho trascritto il
discorso di Roberto tutto di seguito, tagliando qua e là qualche divagazione e
scampoli di conversazione, mentre intorno il paesaggio è la fabbrica vuota,
avvisi sbiaditi per la sicurezza degli operai e poi le foto, incorniciate
d’azzurro. Quello che mi colpisce di Roberto è la coerenza del ragionamento.
Parte dal design che, nella sua visione, fa i conti con l’ambiente e i suoi vincoli,
prosegue su come ambiente e design possano costituire contesti che lascino
emergere la storia dei luoghi e contribuire a generare relazioni e conclude con
le relazioni di lavoro che devono rispondere coerentemente agli stessi vincoli,
non per un’istanza morale, ma perché lavorare con la testa e con le mani
significa attivare competenze e quando queste si perdono è un pezzo di
intelligenza collettiva che va smarrita. Ho la netta sensazione che proprio il
tema dell’intelligenza collettiva e della necessità di mettere insieme il
lavoro della testa con quello delle mani, come ci suggerisce Sennett in L'uomo artigiano, sia una delle
questioni critiche da affrontare in futuro. Roberto ha il merito di non
soffrire di nostalgia, ma di partire dal presente per coglierne le possibilità,
che non sono solo di business, ma di generazione di un mondo. Mi pare una
specie di autoritratto di homo faber del
XXI secolo, quello, scrive Hanna
Arendt, che con il suo lavoro concreto contribuisce a generare il mondo in cui viviamo.
Nessun commento:
Posta un commento
è uno spazio per dialogare, commentare, chiedere approfondimenti e chiarimenti