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mercoledì 16 ottobre 2013

L'estetica della necessità, un'idea di design


Roberto De Gregorio è un grafico pubblicitario che da alcuni anni ha cominciato a dedicarsi alla progettazione di oggetti. All’inizio erano gadget, destinati agli eventi con cui collaborava; poi ha cominciato a interessarsi agli scarti di produzione, interesse che condividiamo. Da questo interesse è nata la collaborazione con alcuni artigiani torinesi. Insieme hanno prodotto mobili da pezzi di vecchie Fiat 500, poi sedie e poltrone da vecchi bidoni d’olio e da un paio d’anni si dedica a produrre borse utilizzando gli scarti dei tessuti delle auto e vecchie cinture di sicurezza, fondi di magazzino oramai obsoleti. La conversazione che leggete risale a domenica 21 settembre 2013. Siamo andati insieme alla vecchia fabbrica Leumann a Rivoli, oramai dismessa. In uno dei capannoni Roberto ha realizzato l’installazione di alcune fotografie realizzate da Massimiliano Camellini. Le immagini ritraggono la fabbrica subito dopo la dismissione e riprendono oggetti d’uso, cartelli, avvisi, tracce di vita quotidiana che sembra essersi dileguata all’improvviso per via di qualche catastrofe. La mostra, adesso è chiusa, ma le foto si ritrovano su un libro, Ore 18, l’orario è finito editore Hapax. Alcune di queste foto si trovano pure sul sito del Festival fotografico Europeo che durerà fino al 13 novembre2013
Una delle foto di Camellini nell'installazione alla Leumann

La vecchia fabbrica è una specie di spettro, 10 mila metri quadrati, su 3 piani. Ha funzionato come fabbrica tessile, con alterne vicende, fino al 2007. Nel 2010 è stata smantellata e ora i macchinari non ci sono più. Accanto c’è il villaggio Leumann, che ospitava operai e impiegati. La casa dei Leumann si trova nel piazzale antistante lo stabilimento produttivo. I padroni vivevano lo stesso contesto degli operai, sentivano gli stessi odori e soffrivano degli stessi rumori.
L’idea di lavoro che emerge da uno spazio come questo è spiazzante in un’epoca dove responsabilità sociale d’impresa è spesso un concetto labile e poco coerente con la vita quotidiana dell’organizzazione.
La conversazione tra noi scivola in fretta sulla nostra idea di lavoro. Roberto ha le idee chiare sul suo ruolo di designer. Alcune delle cose che mi ha detto le riporto qui di seguito, perché secondo me aprono uno spazio di riflessione interessante per tanti, anche non designer, per il metodo con cui affronta le questioni che gli stanno a cuore. E poi, altro aspetto per me affascinante, perché Roberto parla di riuso creativo in modo da uscire dagli stereotipi legati alla necessità e opportunità di ridurre i rifiuti, ma come possibilità concreta e quasi come necessità nel paesaggio urbano nel quale viviamo.

“Design è per me estetica della necessità. Noi ora parliamo di design come fosse una specialità del ‘900, mentre invece è il mestiere più antico del mondo. Ogni oggetto è infatti figlio di una necessità, un martello, un chiodo, una lama; di una necessità e di una possibilità, data dalle risorse disponibili intorno, che sono necessariamente limitate. Oggi per me il design ha come limite il paesaggio urbano che abbiamo generato, le risorse che vi sono presenti, e i rifiuti, gli scarti, sono tra questi.

Ogni oggetto nato dalla necessità ci racconta la storia di chi l’ha creato, ci racconta di un ambiente, di un sistema di relazioni. Ho visto ad esempio a Rotterdam che una cooperativa si è fatta assegnare dal Comune dei pezzi di terra incolta in mezzo agli hangar del porto. Lì coltivano frutta e verdura. Hanno anche aperto un ristorante, dove utilizzano le cose che coltivano. Come sedie utilizzano dei tronchi tagliati che erano stati dimenticati al porto. Vederli in quel luogo mi ha dato il senso di cosa intendo io per design, sono oggetti fatti con le risorse presenti localmente, sono collegati al lavoro che fanno le persone e sono le persone a metterci il valore aggiunto.

Non mi sono accorto subito delle possibilità di lavorare con gli scarti. Io sono designer da 3 o 4 anni, prima non ero così sensibile, ora trovo cose che spuntano da ogni dove, oggetti, pezzi di stoffa o di legno. L’idea di incorniciare le foto con questi telai, ad esempio, mi è venuta qua dentro. Ce n’erano un mucchio buttati in un magazzino. Servivano per stampare le stoffe. Mi affascinava la possibilità di squarciarli perché sotto emergesse la loro storia, grazie a queste foto. Sono molto tesi e, appena ho fatto il primo taglio, il materiale si è arrotolato prendendo le forme che vedi. La materia che abbiamo intorno può ancora raccontare tante storie, se la guardiamo con attenzione.


La storia delle borse Rebelt è cominciata un paio di anni fa. Vedevo che il sellaio con cui collaboro, Massimo Torassa buttava via le cinture di sicurezza, i pezzi di tessuto che gli rimanevano, le capotte e ho pensato che potevano essere utili per fare delle borse dai frammenti che fossero pezzi unici. Poi sono stato a una mostra di Mondrian e mi sono messo in testa di realizzare una borsa Mondrian. Tornato a Torino, però, vedevo che accostando i pezzi non trovavo la giusta composizione e anche quando accadeva, magari non mi piaceva. Allora ho cominciato ad accostare i pezzi liberamente, senza pensare troppo, ed ho scoperto che accostando pezzi apparentemente inconciliabili magari veniva fuori un buon equilibrio. Nelle borse in effetti sono i pezzi di cintura di sicurezza che fanno da collante e creano una sorta di tessitura. Questa è stata una scoperta.

Quando lavoro mi piace affrontare le difficoltà, in questo caso, era di trovarmi con pezzi di stoffa di colore, forma, tessuto diverso, da quello più doppio e pesante a quello più leggero.
Alla fine le borse producono una sorta di effetto Missoni, danno l’idea della composizione.

Mi ha aiutato anche un testo, si intitola Postproduction, che sostiene che l’arte moderna non riesce più a inventare nulla, perché non è necessario. Gli artisti contemporanei sono come dei registi che fanno migliaia di ore di girato e poi montano insieme i pezzi, come Andy Wharol con gli oggetti di uso quotidiano. È una sorta di rivalsa della cultura sul consumo, quando un oggetto banale come la scatola di zuppa Campbell diventa arte. Con i tessuti delle auto per me è la stessa cosa, metti insieme cose che non dovevano stare insieme e produci un oggetto.

Per me al centro del design non è l’oggetto, ma ciò che gli ruota intorno. L’oggetto produce una sorta di gravitazione attorno a cui tutto il resto ruota. È cambiamento, per te e per quelli che ti circondano.

Una delle cose che abbiamo deciso con il mio amico sellaio è che le borse le avremmo prodotte a Torino, pagando una persona che taglia e cuce, messa in regola con tutti i contributi pagati. Altrimenti staremmo negando quello che dicevo prima. Se il design è
frutto della necessità, allora deve rispettare i vincoli dati dalla presenza di materia prima, dalle capacità e competenze presenti in un luogo. Non ha senso per me che un grande designer faccia produrre un oggetto in Cina, perché il processo creativo e costruttivo ha bisogno di concentrare le intelligenze.

Il designer poi deve essere capace di comprendere come l’oggetto che crea può trovare una sua continuità produttiva, industrializzando il progetto, o comunque rendendolo riproducibile. Quando hai del materiale limitato rischi che l’esperienza finisca. Il materiale di recupero ha dentro un limite, e questo aiuta a moltiplicare la creatività. Più hai vincoli più la creatività si moltiplica, perché devi fare delle scelte.

La difficoltà principale che ho incontrato quando ho cominciato è stata trovare qualcuno che avesse esperienza dei materiali. Lì comincia il dialogo. Il timore è di trovare del materiale di cui non conosci le problematiche. Una delle cose che si perde con la scomparsa dei piccoli artigiani è la conoscenza dei materiali. Ad esempio a Torino sono rimasti pochissimi sellai.
Ora il punto non è salvare i sellai, oppure i riparatori di elettrodomestici dalla scomparsa, perché sarebbe come dire che devi salvare il panda, un animale che non sai a che sorta di equilibrio contribuisce nella natura, ma ti pare simpatico. Il punto è che gli artigiani sono gli unici che conoscono la materia da un punto di vista pratico, sanno come si usa, come si manipola, cosa ci puoi fare e cosa no. Se non riesco a entrare in relazione con il materiale, perché non lo conosco, non posso produrre niente. Per questo dico che il design è mettere insieme esperienze, non assemblare.

Quindi, torniamo al discorso dei sellai, il punto è che spariti questi pochi che ancora lavorano, sparisce anche tutta la conoscenza che loro hanno del materiale, che sono i tessuti dei sedili delle auto, un materiale che ormai sa di archeologia del ‘900. Persa la conoscenza dei materiali vuol dire che anche i materiali perdono valore, perché nessuno sa più cosa farne e come utilizzarli. Per questo per me, per fare il designer, le condizioni sono due: la disponibilità locale di materia prima e di competenze”.

Ho trascritto il discorso di Roberto tutto di seguito, tagliando qua e là qualche divagazione e scampoli di conversazione, mentre intorno il paesaggio è la fabbrica vuota, avvisi sbiaditi per la sicurezza degli operai e poi le foto, incorniciate d’azzurro. Quello che mi colpisce di Roberto è la coerenza del ragionamento. Parte dal design che, nella sua visione, fa i conti con l’ambiente e i suoi vincoli, prosegue su come ambiente e design possano costituire contesti che lascino emergere la storia dei luoghi e contribuire a generare relazioni e conclude con le relazioni di lavoro che devono rispondere coerentemente agli stessi vincoli, non per un’istanza morale, ma perché lavorare con la testa e con le mani significa attivare competenze e quando queste si perdono è un pezzo di intelligenza collettiva che va smarrita. Ho la netta sensazione che proprio il tema dell’intelligenza collettiva e della necessità di mettere insieme il lavoro della testa con quello delle mani, come ci suggerisce Sennett in L'uomo artigiano, sia una delle questioni critiche da affrontare in futuro. Roberto ha il merito di non soffrire di nostalgia, ma di partire dal presente per coglierne le possibilità, che non sono solo di business, ma di generazione di un mondo. Mi pare una specie di autoritratto di homo faber del XXI secolo, quello, scrive Hanna Arendt, che con il suo lavoro concreto contribuisce a generare il mondo in cui viviamo.

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