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lunedì 22 aprile 2013

Autoresponsabilizzazione

Ho l'impressione che nei luoghi di lavoro si utilizzino le parole un poco a casaccio. Per esempio la parola responsabilità. Una breve riflessione a partire da un caso che mi è successo.
Tavolo di lavoro con un libro che sto leggendo


La settimana scorsa mi trovavo in una banca per una consulenza. È un'azienda con cui collaboro da anni per progetti di formazione, che hanno spesso ricadute di sviluppo organizzativo. In uno dei momenti dedicati alla formazione individualizzata uno dei quadri mi dice che sta facendo un lavoro per autoresponsabilizzare i direttori di filiale.
È un lapsus, mi dico, ma poi continuo a pensarci su, perché mi pare che lasci trasparire dei tratti culturali che sono diventati negli ultimi anni sempre più forti nelle organizzazioni di lavoro.


Responsabilizzare qualcuno significa infatti lasciare all'altro la delega per svolgere un compito definito come rilevante da chi è più in alto in gerarchia. Questo può essere fatto ascoltando il delegato, confrontandosi, scontrandosi o semplicemente comunicando la decisione e l'ambito di responsabilità.
L'atto di delegare implica, però, anche una responsabilità per il delegante. La persona designata, infatti, potrebbe rivelarsi meno abile del previsto, potrebbe avere difficoltà a reggere lo stress, potrebbe dimostrarsi poco capace di ascolto e guida rispetto ai suoi collaboratori. Ma potrebbe anche accadere che l'ipotesi che ha guidato l'atto di delega sia inadeguata, che, nel caso specifico, il mercato di riferimento sia troppo debole o diffidente per accettare un approccio più spinto sul piano commerciale, e così via. Delegare e responsabilizzare sono dunque azioni che implicano una reciprocità, un patto, un accordo tra parti e anche l'assunzione di responsabilità precise da parte del delegante.

L'autoresponsabilizzazione invece è su questioni, compiti, doveri, che l'individuo sente come propri, a prescindere dal volere delle gerarchie: perché è convinto della correttezza, necessità o oppurtunità della scelta, oppure perché individua in quei compiti un suo preciso dovere. Per fare un esempio, se uno pensa che è giusto guadagnarsi onestamente il salario, sarà autoresponsabilizzato nel condurre al meglio il suo lavoro, nell'evitare di stare in malattia a meno che non sia strettamente necessario, sarà molto critico verso se stesso e presterà attenzione a tenersi aggiornato e a formarsi. Se invece avverte come profondamente ingiuste certe decisioni si assumerà la responsabilità di contrastarle, o anche di combatterle, assumendosene i rischi connessi. L'atto di autoresponsabilizzarsi però non può essere declinato al passivo.

Lavorare per autoresponsabilizzare invece significa che chi è più in alto in gerarchia non cerca di responsabilizzare qualcuno circa decisioni prese altrove, assumendosi la responsabilità della scelta, assegnando all'altro solo la delega per decidere come eseguire il compito; ma che il capo decide qualcosa pretendendo che l'altro l'affronti come se fosse una decisione liberamente presa in perfetta autonomia. Vuol dire, ad esempio, che il delegato è per definizione d'accordo con la decisione presa, che questa corrisponde a ciò che egli stesso avrebbe fatto. Si chiede zelo esecutivo e identificazione con le scelte aziendali, ma si chiede anche di introiettarle come proprie, dando vita a un'ingiunzione paradossale del tipo: sii convinto.

Ora, quando uno è convinto, non c'è bisogno di nessuna ingiunzione; quando convinto non è, allora non c'è ingiunzione che tenga. Come quando a qualcuno in ansia diciamo: stai tranquillo: non funziona, è impossibile. Serve solo a far sentire in colpa colui che tranquillo non è, si sente strano, una specie di Gulliver ansioso nel paese dei tranquilli.

Allora il rischio è che, per conformismo, il Gulliver direttore di filiale finisca per mostrare grande tranquillità, introiettando l'ingiunzione paradossale, ma siccome tranquillo non è, deve fare un grande sforzo su se stesso e quando non ce la fa si sente in colpa, e siccome è in colpa allora aumenta lo zelo. Il responsabile di filiale, probabilmente, finirà per soffrire di stress, a meno che non trovi delle vie d'uscita come dire sempre di sì e continuare a fare come sempre.
L'autoresponsabilizzazione nei confronti delle attività indirizzate al mercato, infatti, può avvenire se il responsabile di filiale condivide in pieno le scelte come se fossero le sue stesse scelte. Altrimenti no. Può essere responsabilizzato a seguirle comunque, ma perché sono state definite le direttive e gli spazi di delega. Ma, in questo caso, vuol dire che il nostro quadro non può fare nulla per autoresponsabilizzarlo. Può fare qualcosa solo per responsabilizzarlo, assumendo, a sua volta, le responsabilità connesse al suo ruolo.

Un'alternativa a tutto questo ci sarebbe, e cioè che belle parole come autonomia e responsabilità divenissero patrimonio autentico delle aziende. Chi le utilizza, e i vertici aziendali in prima istanza, ne cogliessero appieno le ambiguità.
Infatti, autoresponsabilizzarsi, significa anche acquisire autonomia. Il che implica la possibilità di mettere in discussione, almeno in parte, le scelte dei nostri interlocutori. Se siamo autonomi, infatti, è prevedibile che emergano dei punti di vista e delle modalità di azione almeno in parte differenti.
Le organizzazioni che facciano questo tipo di scelte, allora, devono diventare capaci di garantire uno spazio negoziale e partecipativo. Significa che uno spazio alla possibilità di contribuire alla definizione delle scelte strategiche, sia pure minimo, ben regolato e circoscritto, deve sempre essere lasciato.
Non è obbligatorio farlo, sia chiaro, si può pure scegliere di essere estremamente direttivi, purché non si sostenga poi, in modo ideologico e strumentale, che al centro dell'organizzazione sono le persone e che si privilegia l'autonomia individuale.

1 commento:

  1. Immagina se si provasse a declinare questo principio nel mio luogo di lavoro, l'universita...
    Matteo Di Gesu'

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