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mercoledì 31 luglio 2013

Il lavoro è una risorsa?


Sfoglio Metafora evita quotidiana (Bompiani, 1998) di George Lakoff e Mark Johnson, trovo a un certo punto un paragrafo che si intitola Politica (p. 289) e resto incantato a leggere e rileggere. 
Le metafore generano significati ai quali per abitudine finiamo per adattarci, mettendo in crisi la capacità di osservare noi stessi mentre agiamo. È in relazione ai significati
Officine OGR di Torino
condivisi che agiamo, contribuendo così a generare il mondo in cui viviamo. In questa pagina densissima, i due autori accostano il tema del senso del lavoro con il linguaggio che usiamo correntemente, e senza alcuna presa di distanza critica, per descriverlo.
Scrivono: “Il dibattito politico è generalmente interessato ai problemi di libertà e di economia. Ma uno potrebbe essere sia libero che sicuro dal punto di vista economico e condurre un’esistenza vuota e senza significato. Noi vediamo i concetti metaforici di libertà, eguaglianza, sicurezza, indipendenza economica, potere, ecc. come modi diversi di arrivare indirettamente ai problemi di un’esistenza significativa. Questi sono tutti aspetti necessari per una discussione adeguata del problema, ma, per quanto ne sappiamo, nessuna ideologia politica affronta direttamente il problema centrale. Infatti molte ideologie sostengono che le questioni di significatività personale o culturale sono secondarie o devono essere poste in un secondo tempo. Ogni ideologia di questo tipo è disumanizzante”.


Lakoff e Johnson scrivono cose abbastanza risapute, affrontate e approfondite da studiosi, politici, sindacalisti; risapute da ognuno di noi, se solo ci fermiamo a pensare alla nostra esperienza quotidiana.
Eppure, la modalità consueta con cui parliamo del lavoro continua a trascurare gli aspetti di senso. Il lavoro e, la sua prosecuzione, la pensione, sono regolate dal punto di vista procedurale, si battaglia sulle regole, sulla rappresentanza sindacale, sui salari,  sugli obiettivi, mai sul senso. Come se avessimo introiettato la metafora: “Il lavoro è una risorsa” (sono sempre parole di Lakoff e Johnson), risponde cioè alle regole della domanda e dell’offerta.  La parola risorsa, come ogni metafora, porta in luce il valore economico del lavoro, mentre, al contempo, lascia in ombra, riducendolo a puro accessorio, il tema del senso e significato che ha per ognuno di noi.

Potrebbe apparire superfluo, in un periodo storico di forte crisi e di perdita di posti di lavoro, farsi domande sul senso. Eppure è proprio questo il punto su cui vorrei che riflettessimo di più; l’espressione “il lavoro è una risorsa” e tutto il linguaggio delle “risorse umane” che ne deriva, hanno finito per collegare il discorso dell’economia, intesa come tecnica che si occupa di aspetti oggettivi e misurabili, con la dimensione del lavoro, che contiene però anche altre valenze e ha una rilevanza nell’esperienza di ognuno di noi che non è traducibile esclusivamente in termini quantitativi.

La metafora del lavoro come risorsa rende praticabili le retoriche della valutazione degli obiettivi, in cui ogni individuo (o gruppo di lavoro) agisce in concorrenza con altri individui e gruppi. Ognuno andrà in cerca di qualche gratificazione quantitativa, che probabilmente tradurrà con i concetti di libertà (intesa come possibilità o meno di vendersi al miglior offerente), sicurezza economica (ridotta a sinonimo di capacità di acquisto), carriera (intesa come quota di potere detenuta), riconoscimento (inteso come compenso, quantitativo, che mi spetta).  

Anche la gestione del personale, in un universo linguistico così strutturato, diventa un fatto tecnico: ci sono risorse da allocare; processi da ottimizzare; percorsi di carriera da disegnare; costi da contenere; rami secchi da tagliare; potenziali da valorizzare; skills da affinare, ecc. C’è un mondo intero, persone, processi, regole, procedure, saperi, connesso in modo coerente con la metafora della risorsa, e ci sono le tecniche che consentono di tradurre in azione tutto questo.
Qualsiasi tecnica, quando diventa guida all’azione, è anche un sollievo per il nostro senso di responsabilità e i sensi di colpa che ne derivano. Quando un responsabile del personale mi descrive un gruppo di lavoro impegnato a insegnare a un gruppo di indiani che lavorano in remoto, una certa procedura gestionale, non ha particolari remore a descrivermi quel gruppo di lavoro che sta operando così bene come “persone che lavorano per diventare esuberi”. Quando gli indiani, infatti, diventeranno abbastanza bravi e autonomi, ne prenderanno il posto.
Anche la parola esubero è interessante dal punto di vista metaforico. L’esubero qui è colui per il quale non c’è più posto. Il lavoro in questo caso è inteso come un contenitore, una cesta, di dimensioni date. Chi è in esubero, molto semplicemente, è eccessivo rispetto a un contenitore che più di così non ce la fa. È un problema esclusivamente tecnico. C’è una valigia di troppo, e non è quella con la mia attrezzatura subacquea. Chi detiene il potere (di decidere) in fondo, sta solo reclamando lo spazio nel portabagagli, per la sua sacca, perché la pesca subacquea è l’unica cosa che lo rilassa, non sta decidendo nulla sull’altro. L’altro è esubero in virtù di un calcolo neutro di costi e benefici (la concorrenza internazionale che restringe lo spazio nel bagagliaio).

Torniamo alla metafora del lavoro come risorsa, da cui ero partito. Facile, da un certo punto di vista, prendersela con le metafore dei padroni, dei potenti, dei ricchi.
Ma come ce la caviamo con quell’altra metafora che riduce il lavoro alla proprietà del posto? Nel linguaggio quotidiano, infatti, spesso capita di dire o sentir dire che si ha o non si ha un posto di lavoro. È come se, collettivamente, ci fossimo accontentati di scomporre il lavoro nelle sue singole funzioni, rappresentate come se fossero un’area, uno spazio (da difendere, come in una guerra per il possesso del territorio), assegnando ognuna di queste a un individuo che ne è diventato proprietario. Le questioni di senso finiscono ancora una volta sullo sfondo, rispetto al mantenimento o all’acquisizione dei posti (di lavoro).
E così abbiamo finito per comportarci come piccoli proprietari di microappezzamenti di terra, in concorrenza con tutti gli altri proprietari, che guardiamo in cagnesco, e in lotta contro tutti coloro che a una piccola proprietà aspirano.  Anche la metafora della proprietà, mentre rivela l’attaccamento, necessario, a un oggetto, nasconde un aspetto del lavoro che ha a che fare con il generare, attraverso l’opera, il mondo che collettivamente abitiamo.
Le metafore che caratterizzano il linguaggio specialistico di chi si occupa di risorse umane, o il gergo dei lavoratori, si rivelano così dei formidabili vincoli a pensare in modo differente. Generano universi chiusi, che forse proprio nei momenti di crisi, ci sarebbe bisogno di rimettere in gioco.

Adriano Olivetti, ad esempio, nel discorso ai lavoratori di Pozzuoli, dove si inaugurava una nuova fabbrica, il 23 aprile del 1955, disse: “La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta” (Adriano Olivetti, Ai lavoratori, Edizioni di Comunità, 2012, p. 29).

La risorsa è funzionale, è un mezzo per altri fini. Quando l’uomo al lavoro è una risorsa diventano poco chiari i fini e soprattutto si finisce per associare il lavoratore a uno strumento. Se alla parola lavoro cominciassimo ad associare le metafore legate al generare (la comunità nuova di cui parla Olivetti ad esempio), o all’esplorazione e all’avventura (comprendere le possibilità degli uomini in un determinato contesto e provare a scoprirne di nuove?) scommetto che cominceremmo ad avere qualche difficoltà ad accontentarci del calcolo economico puro, e anche di quel sistema di procedure e regole (necessari, certo, ma generatori di gabbie per il pensiero e l’azione) che trasforma il lavoro in un campo di conflitto per il possesso di un territorio.
Mi rendo conto che avventura ed esplorazione sono parole suggestive, ma non dicono molto su quali sono i risvolti concreti. Come si fa a gestire il personale di un’azienda in modo da valorizzare il senso di avventura e scoperta dei lavoratori? È una domandona a cui non sono in grado di rispondere, però sono in grado di mettermi a cercare (esplorare?). 

Soprattutto, da ora in poi, ogni volta che qualcuno nominerà le (o scriverà delle) risorse umane, drizzerò le antenne, e mi ricorderò di Olivetti, che all’epoca del suo discorso ai lavoratori, non era un benefattore, ma il massimo dirigente della più grande multinazionale europea, eppure si preoccupava di comprendere, e condividere con il suo personale, quali fossero i fini dell’industria, dal momento che il profitto è da intendersi come uno strumento utile a raggiungerli.

2 commenti:

  1. Mi viene anche in mente l'ultimo libro che ho letto "Quello i soldi non possono comperare. I limiti morali del mercato" di Sandel.

    In quel testo Sandel sottolinea come misurare in termini monetari anche "cose" appartenenti al mondo della relazione o del sociale, li corrode e corrompe. Monetizzare una relazione, la degrada, ne cambia il significato e quindi non è vero che il libero scambio economico è neutro, rispetto ai beni scambiati. Cioè se un televisore me lo vendi o me lo regali non cambia nulla. Se invece il voto te lo compero oppure no, cambia molto!

    Così se il lavoro lo considero solo come "risorsa" vedo solo un aspetto e in qualche modo si usura, si corrompe...

    Stefano P.

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    1. Caro Stefano, faccio sempre fatica con le espressioni come "si corrompe", perché rimandano a un universo morale difficile, quello delle generalizzazioni del tipo: il denaro corrompe. L'analogia che fai però a me sembra corretta. Il problema non è il denaro in sé, è uno strumento utile per non doversi portare dietro un chilo di pere ogni volta che desidero un chilo di patate prodotte dal mio vicino. Il problema è quando traduciamo tutto in denaro, perché nelle relazioni significative, come l'amicizia, l'amore, lo scambio eccede sempre il valore economico, contiene qualcosa di impagabile e nemmeno dicibile, altrimenti sarebbe facile sostituire la persona che ami con una escori (per fare un esempio). Stessa cosa per tutte quelle relazioni che hanno a che fare con la sfera che Bateson considerava "sacro", come la democrazia. La sfera cioè nella quale ognuno di noi sperimenta il legame con gli altri, un legame che può essere anche astratto, come quello di riconoscersi come cittadini e parte di una stessa collettività.
      Comunque, il libro di Sandel lo compro, e poi magari ne riparliamo.

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