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venerdì 16 maggio 2014

Il legame sociale contro lo stress

Giorgio, il nome è inventato, durante un lavoro in aula in cui ho chiesto ai partecipanti di scegliere tra una serie di parole chiave che descrivono la vita in azienda, ha selezionato tra tutte Stress.
Il compito di ognuno dei presenti in aula era, una volta scelta la parola, di raccontare un episodio o una situazione della vita di lavoro associabile alla parola selezionata.
L’obiettivo era cercare di capire insieme alle persone che seguivano il corso, quale fosse il reale significato che assumono per loro le parole.
La Fiera del Levante a febbraio è un guscio vuoto
Quando arrivo in un’azienda che mi chiede un intervento formativo, infatti, resto sempre colpito dall’onda di parole con cui vengono descritti i processi, le persone, gli obiettivi. Ci sono sempre l’eccellenza, c’è la responsabilità, l’urgenza, la tempestività, la flessibilità, la comunicazione, il coinvolgimento, l’innovazione. È una sorta di vocabolario standard, condiviso nella stragrande maggioranza delle aziende.

Eppure se vai a guardare, ogni azienda fa storia a sé, è organizzata in modo diverso, produce cose e servizi diversi, ha culture diverse, che sono una cosa molto concreta, visto che si traducono in comportamenti, stili, gestione degli spazi, dei tempi e delle persone.
A me pare che, mentre le parole sono le stesse, non è così per i significati. Le parole sembrano costituire una sorta di linguaggio stereotipato attraverso il quale chi vive in un’organizzazione descrive il contesto, una sorta di messinscena nella quale ognuno trova protezione. Ma da cosa si protegge, e perché?

La scelta della parola stress, da parte di Giorgio svela forse qualcosa. Giorgio, infatti, con la parola stress, ha descritto il sentimento che prova quando, dopo aver chiuso in tempo un incarico, reclamato dal capo come fondamentale, urgente, strategico, arrivato alla riunione di consegna, vede lo stesso capo mettere da parte il dossier appena consegnato, senza nemmeno sfogliarlo, per proporre immediatamente un altro “problema” urgente da affrontare.
Lo stress, a guardarlo da quest’angolazione, diventa qualcosa di diverso dall’idea di carico di lavoro eccessivo rispetto alle capacità del lavoratore.


Quello che emerge piuttosto è un ripetuto, mancato riconoscimento. Appena hai finito di correre per svolgere un compito, si passa al successivo senza nemmeno sapere se il lavoro andava bene o no. Sembra che si proceda dalla risoluzione di un problema a un altro e come i problemi siano l'equivalente degli ostacoli da rimuovere. Chi opera per rimuoverli è una sorta di macchina. Rimosso un ostacolo ne arriva un altro. La parola problema, abbiamo condiviso con Giorgio e con i suoi colleghi presenti in aula, utilizzata come sinonimo di ostacolo, finisce per assomigliare a un sasso caduto sulla strada, devo trovare il modo di scansarlo evitando brutte conseguenze. Raggiunto un traguardo il percorso a ostacoli ricomincia, senza che ci sia mai la sensazione di qualcosa di compiuto. Il capo è colui che avvia il gioco, come se premesse uno start. Nel racconto di Giorgio non ci sono mai momenti di confronto, in nessuna fase del lavoro; il problema e la responsabilità della buona riuscita sono affidati completamente all’individuo lasciato solo. Né è chiaro, perché il capo non lo dice mai, se il lavoro è almeno utile ed efficace. Possiamo presumere di sì. Giorgio stesso presume di sì, dal momento che da 20 anni lavora nella stessa azienda, ma nessuno glielo ha mai detto esplicitamente.

Un'altra immagine della Fiera del Levante in febbraio
Lo stress in letteratura è spesso correlato all’eccesso: di responsabilità, di carico di lavoro; o alla mancanza: quando un compito risulta troppo banale rispetto alle capacità e quando al lavoratore capace ed esperto è lasciata scarsa autonomia nello svolgimento. Non sono i casi di Giorgio, che tra l’altro, pur vivendo un disagio, non è in burn out, la sua motivazione non è calata, le sue performance sono stabili; non possiamo dunque parlare di stress come causa di qualche patologia.
Emerge invece la mancanza di quello che Richard Sennett chiama “triangolo sociale” (Insieme, Feltrinelli, 2012, p. 166-198)

Il triangolo sociale è costituito dal rispetto reciproco con i capi che Sennett chiama "autorità guadagnata"; dall’aiuto con i colleghi, "rispetto reciproco"; dal darsi una mano, "collaborazione durante una crisi". 
È grazie a questo triangolo che si genera la fiducia, la possibilità di scambio e confronto, la presenza di dialogo informale, che sono condizioni necessarie a formare quella rete sociale che fa vivere le organizzazioni. Senza di essa, tutti i discorsi sull’efficienza crollano. Secondo Sennett, infatti, in mancanza delle condizioni elencate, si generano: un sentimento di risentimento nei confronti dei capi e dell’azienda e un "effetto silos" che rende più difficili gli scambi interfunzionali. Il sintomo forse più evidente della presenza di un "effetto silos" è l’abitudine a mandarsi delle mail anche in contesti dove l’incontro faccia a faccia potrebbe essere più rapido e risolutivo. Le mail diventano spesso, come sa chiunque lavori in un’organizzazione appena complessa, uno strumento difensivo, finalizzato a dimostrare di essere dalla parte della ragione, nei confronti del collega dell’ufficio o della scrivania accanto.

Nel caso di Giorgio dunque non siamo nel campo delle patologie individuali, ma in una patologia dell’organizzazione, determinata da un sistema di relazioni in cui ognuno è funzionale all’altro, in un’ottica di efficienza che finisce per equiparare gli esseri umani a esecutori e risolutori di problemi. Peccato che i problemi da affrontare siano spesso generati dall’effetto silos, causato dal mancato investimento nel triangolo sociale. La tensione all’efficienza si rivela in questi casi solo una scorciatoia utile a non affrontare la dimensione sociale del lavorare insieme, che richiederebbe investimento di tempo e cura. Lo stress di Giorgio, sentimento peraltro condiviso dai suoi colleghi presenti in aula, somiglia alla frustrazione, data dalla mancanza di una rete sociale accogliente nella quale ansie, difficoltà e possibilità sono in qualche modo condivise, dove si possa avere la sensazione di esistere nello sguardo degli altri.
R. Sennett, Insieme, Feltrinelli

Il linguaggio stereotipato sembra essere un modo per salvare, attraverso il conformismo, quell’involucro di socialità che le organizzazioni contemporanee si consentono. Tutti sembrano parlare la stessa lingua, tutti ritengono di avere obiettivi condivisi, e questo in qualche modo li fa sentire parte di qualcosa di più grande della loro solitudine. 
Nel momento in cui si concedono un momento di ascolto della propria emozione, come è successo a Giorgio, possono scoprire che soffrono della mancanza di forme di "urbanità", come le chiama Sennett, che rinforzino il legame sociale.

Le organizzazioni oggi sembrano aver perso la funzione di socializzazione, e il lavoro, il compito di contribuire alla costruzione delle identità, individuali e collettive. Da questo punto di vista, i luoghi di lavoro appaiono come gusci vuoti. Ricordano qualcosa di cui avvertiamo ancora il sapore, ma sempre più vagamente e in astratto, come gli edifici di una fiera chiusa dove la desolazione attuale rimanda comunque per differenza al tempo in cui si anima e si colora di presenze e voci.
Eppure i capi potrebbero fare tanto per rinforzare il legame sociale, ad esempio investendo su progetti che implichino lavori di gruppo di lunga durata, oppure su attività dedicate all'apprendimento continuo, magari attraverso l'elaborazione dell'errore. Più difficile fare qualcosa come semplici collaboratori. Si potrebbe cominciare, però, provando a non accontentarsi delle parole stereotipate.

2 commenti:

  1. Antonio, bellissimo articolo.Tanti commenti mi verrebbero, per ora la prima cosa è collegata con un episodio che i è appena accaduto e riguarda la formazione e ricerca sullo stress lavoro correlato che è prevista dalla nuova legge sulla sicurezza. Ebbene nell'organizzazione per la quale lavoro si è deciso di fare una ricerca su questo. Ma solo a chi ha il contratto da dipendente: tutti i collabaoratori esterni che vivono 35-40 ore alla settimana a stretto contattato con i dipendenti (e sono quasi la metà) sono esclusi dalla ricerca.
    Chissà cosa hanno inteso con la parola stress? E chissa che idea di organizzazione hanno in mente? Il tuo articolo dovrebbe essere letto da tutti i formatori sulla sicurezza che si occuppano di questo tema.
    Stefano P.

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    1. Mi vengono in mente due ipotesi che motivano la scelta di non includere i collaboratori non dipendenti nella ricerca: 1) di stress soffrono solo i dipendenti, agli avventizzi evidentemente non gliene importa granché, hanno altri problemi e investono poco sull'azienda dal punto di vista emotivo; 2) la ricerca bisogna farla per adempiere alla legge, e allora la cosa importante non è fare la ricerca per capire e intervenire, ma perché così posso dire di averla fatta. In questo secondo caso sarebbe verificata l'ipotesi che l'organizzazione è un guscio vuoto, un simulacro e non risponde più, né intende farlo, alle domande di senso delle persone. Che ne dici?

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